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Professionisti: c’è una crepa nella previdenza

Che siano private o privatizzate, le Casse di previdenza dei professionisti italiani (1,7 milioni di individui) svolgono un ruolo pubblico

Sono nel capitale della Banca d’Italia e c’è chi le vorrebbe azioniste anche di Cassa depositi e prestiti. C’è chi le guarda come il salottino buono (e ricco, con un patrimonio di 104 miliardi di euro) da affiancare alla declinante finanza italiana. C’è chi invece le considera, più cinicamente, uno degli ultimi limoni da spremere nel perimetro pubblico. Che siano private o privatizzate, le Casse di previdenza dei professionisti italiani (1,7 milioni di individui) svolgono un ruolo pubblico. Sono il primo pilastro della previdenza di questa diversificata platea fatta di medici, avvocati, geometri, commercialisti, farmacisti, biologi eccetera cui devono pagare la pensione. Quando l’Inpgi (la Cassa di previdenza dei giornalisti) alzò bandiera bianca, diventando un fondo dell’Inps, c’è chi cominciò a temere che fosse solo l’inizio. Altri lo hanno addirittura sperato. Poche settimane fa, in audizione alla Bicamerale di controllo sugli enti previdenziali, Mauro Maré ha avuto il pregio di parlare chiaro: «Quando vengono meno gli attivi, quelli cioè che pagano i contributi, si può avere qualunque idea politica, o filosofica, ma resta il problema dell’equilibrio dei conti. E il medesimo rischio dell’Inpgi ce l’hanno altre Casse».
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«Vi chiedo – ha osservato Bagnai dopo aver ascoltato il presidente dell’Enpam, Alberto Oliveti – di quale utilità possano essere delle proiezioni a 50 anni basate sul wishful thinking di istituzioni come la Bce che in tanti anni ci ha dato un’unica certezza: quella di non riuscire a mantenere il tasso di inflazione al 2%. Una analisi sommaria di alcuni bilanci tecnici – ha proseguito il parlamentare – evidenzia errori medi assoluti di oltre un punto su previsioni di due punti, senza alcuna analisi di sensibilità delle previsioni rispetto a errori di questo tipo».
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E allora sarebbe lecito aspettarsi un controllo e una vigilanza sugli investimenti: perché entrare nel capitale di questa o quella banca? Perché scegliere quel fondo di investimento o quell’altro? Sono più di dieci anni che si discute di un Regolamento in proposito, che i ministeri vigilanti (Mef e Lavoro) avrebbero dovuto emanare per indicare linee guida alle Casse per i loro investimenti, per metà in attività estere. Non ve n’è ancora traccia, nonostante fosse atteso per la scorsa estate.
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Qualche anno fa la sola ipotesi che il vertice dell’Inps potesse essere presente nel cda di un grande gruppo assicurativo, indusse Banca d’Italia a intervenire con una esplicita moral dissuasion. Invece le Casse – con il loro cospicuo tesoretto – diventano oggetto di attenzioni per trovare investitori per il mercato domestico (dai titoli del Tesoro alle piccole o grandi imprese in cerca di capitali).
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Ma perché i fondi pensione, che sono il secondo pilastro, un regolamento sugli investimenti ce l’hanno, e le Casse, che sono il primo pilastro, no? Viste le ambizioni crescenti di avventure nell’alta finanza, forse è tempo di fare qualche riflessione.
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